Lo sbarco in Sardegna del romanico francese
e le cinquanta chiese dei monaci Vittorini

Nell'ambito della storia dell'architettura della Sardegna ebbe una forte valenza lo scisma consumato tra la Chiesa Romano-Cattolica e quella Greco-Ortodossa nel 1054: il periodo che seguì, infatti, vide l'arrivo nell'isola del monachesimo occidentale, al quale erano legate maestranze di costruttori specializzati nello stile romanico. Tale condotta s'inseriva nel disegno politico-religioso del papa Gregorio VII di portare la Sardegna - legata a riti e tradizioni religiose bizantine - nell'ambito della Chiesa di Roma.

Un ordine particolarmente adatto a diffondere nell'isola il culto latino parve a Gregorio VII quello dei Vittorini, benedettini dell'abbazia di San Vittore di Marsiglia, che avevano accolto nel loro eremo alcuni monaci bizantini divenuti discepoli della regola di San Benedetto. La conoscenza della lingua greca e del culto ortodosso avrebbe agevolato il rapporto con la realtà sarda, ancora intrisa di cultura bizantina, dando seguito agli interessi della Santa Sede, che avrebbe avuto in questi religiosi un valido supporto per l'attuazione del progetto innovatore meditato dal pontefice.

Nel 1089 la citata abbazia marsigliese ebbe in donazione l'antica chiesa di San Saturno di Bagnaria (Cagliari), con l'incarico di fondarvi un monastero. Il copioso lascito comprendeva un vasto patrimonio terriero con consistenti quantità di armenti e di servi, ed altre chiese da essa dipendenti: Sant'Antioco, nell'isola omonima; Santa Maria di Palmas; San Vincenzo di Sigerro (Villamassargia); Sant'Efisio di Nora (Pula); Sant'Ambrogio di Uta; Santa Maria di Gippi (Decimoputzu) e Santa Maria di Arco (Selegas). In precedenza, gli stessi monaci avevano ricevuto le chiese di San Giorgio (Decimo) e di San Genesio (Uta).

Nello stesso periodo, i sovrani del regno di Gallura avevano donato ai Vittorini la chiesa di Santo Stefano di Posada, a cui si aggiunsero le chiese di Santa Maria di Larathon (Olbia), di Santa Maria di Surrache (Luogosanto) e di Sant'Andrea di Corte (Posada). Ma queste ultime già nel 1113 vennero concesse all'Opera di Santa Maria di Pisa, e nella seconda metà del secolo i monaci perdevano definitivamente - sempre a vantaggio dei pisani - le altre proprietà della zona.

Anche nel Logudoro, tra il 1095 e il 1119, i monaci francesi ottennero una ricca donazione di terre, con coloni, liberi e servi, presso Butule, un villaggio ora scomparso non lontano da Ozieri, dove fondarono il priorato di San Nicola, a cui più tardi, nel 1151, fu annessa la chiesa di San Salvatore di Villa Betere-Issir Jos (Mores).

Intanto, pochi anni dopo la sua fondazione, il priorato di San Saturno ampliava ulteriormente le sue proprietà: fra il 1090 e il 1094 ebbe numerose chiese dell'area dell'attuale città di Cagliari (Sant'Anania, San Pietro de Portu, Santa Lucia, San Salvatore di Bagnaria e Sant'Elia de Portu Salis) con tutte le loro pertinenze collegate, tutte dipendenti dalla chiesa di Santa Maria de Portu Salis che controllava le saline dello stagno di Molentargius. Ciò provocava la forte reazione delle autorità ecclesiastiche locali, titolari sino ad allora di questo immenso patrimonio.

La produzione e la vendita del sale erano attività solitamente esercitate dai monaci Vittorini che anche nella regione marsigliese possedeva numerose saline: in Sardegna riuscirono a rendere produttiva l'industria del sale, alimentando un'attività commerciale con la Francia meridionale e favorendo l'apertura di empori da parte della classe mercantile della Provenza (A. Boscolo, 1958, p. 48). Costoro poterono consolidarsi specie nei centri commerciali come Cagliari, Oristano, Bosa e Alghero.

Nella prima metà del XII secolo erano nelle mani dei Vittorini vaste proprietà dell'attuale provincia di Cagliari: nel Campidano (Cagliari, Decimoputzu, Elmas, Maracalagonis, Monserrato, Pirri, Quartucciu, Quartu Sant'Elena, Serramanna, Sinnai, Uta, Vallermosa, Villacidro, Villasor, Villaspeciosa), nel Parteolla (Ussana), nel Sulcis-Iglesiente (Pula, Sant'Antioco, San Giovanni Suergiu, Siliqua, Villamassargia), nella Trexenta (Gesico, Selegas). Qualche altro possedimento era in Provincia di Nuoro, a Posada; alcuni infine nella Provincia di Sassari, nel Meilogu (Mores, Ozieri), in Gallura (Luogosanto, Olbia).

Sul finire dello stesso secolo, i monaci di Marsiglia dovevano scontrarsi anche con l'invadenza pisana che ambiva agli stessi traffici: nel 1189 i Pisani, con l'intento di scalzare completamente l'Ordine nel possesso delle saline, ottennero il "Portus Gruttae", l'attuale Su Siccu (A. Boscolo, 1958, p. 50). Dopo la fondazione del Castello di Cagliari nel 1217, i pisani allungarono le mani sul porto del sale, le saline, le peschiere e le fertili aree limitrofe.

Dalla seconda metà del XIII secolo la vita dei monaci di San Saturno si fece ancora più difficile: il monastero venne occupato con la forza per qualche anno dai confratelli dell'Ospedale Nuovo della Misericordia (1263-1265). Nel 1323, durante l'assedio di Cagliari, il monastero venne inglobato nelle fortificazioni costruite dagli iberici nel colle di Bonaria: patì danni preoccupanti per gli attacchi pisani, e nel 1326 subì l'oltraggio della demolizione di parte delle sue strutture, che servirono al capitano Berengario Carroz per costruire il Castello di San Michele (D. Salvi 1995, p. 42).

Un inventario dei beni del priorato di San Saturno, compilato nel 1338, è la spia delle condizioni di decadenza del complesso monastico: pur possedendo ancora un rilevante patrimonio terriero, aveva gli edifici in rovina, le rendite estremamente diminuite, i servi dispersi, i monaci ridotti a non più di due. Infine un quarto di secolo più tardi, nel 1363, il re d'Aragona concesse il monastero di San Saturno, ormai abbandonato, ai cavalieri di San Giorgio di Alfama (L. D'Arienzo, 1983). I beni passarono sotto il controllo dell'arcivescovo di Cagliari, situazione definitivamente riconosciuta nel 1444 dal pontefice (A. Boscolo, 1958, p. 107). Stessa sorte ebbe il priorato di Butule, che andò in rovina nella seconda metà del XIV secolo, durante le guerre tra l'Arborea e i catalani.

Caduti i legami con la casa madre di Marsiglia e spopolatisi i conventi, dell'immenso patrimonio di questi benedettini rimasero solo le chiese, in origine una cinquantina, ma con i secoli ridottesi di numero. Per quanto riguarda la storia dell'architettura, le valutazioni filologiche dei monumenti dei benedettini di Marsiglia presenti in Sardegna, si attengono ad una ricostruzione oggi data per scontata e consolidata, che adotta le ipotesi formulate nel lontano 1952 dal prof. Raffaele Delogu. Secondo l'illustre cattedratico, le forme delle maestranze francesi "si contraddistinguono per il costante impiego di coperture a volte sempre sorrette da archi trasversali [...]; per l'impiego, in qualche caso, di cupole; per la frequente adozione di piante a due navate ed, infine, in maniera ancora uniforme, per i coronamenti ad archeggiature" (R. Delogu 1953, p. 48).

L'autore, durante i suoi studi negli anni '40, aveva individuato come appartenute ai monaci Vittorini alcune chiese del sud Sardegna, in base ai dati conosciuti all'epoca e in gran parte forniti dagli storiografi dei secoli precedenti, come l'Aleo, il De Vico (notoriamente inattendibili), poi ripresi dal Martini, l'Angius, lo Spano. Tali edifici presentano varie peculiarità comuni, che l'insigne studioso aveva attribuito a maestranze provenzali legate ai monaci di Marsiglia.

Negli anni seguenti vari storici pubblicarono diversi studi sulla presenza dei monaci di San Vittore in Sardegna, fornendo anche l'elenco esatto delle chiese e delle proprietà dei suddetti frati: è stato possibile individuare rigorosamente tutte le loro architetture (A. Boscolo, 1958). Perciò con un attento riesame e un'analisi severa si possono mettere in discussione le attuali convinzioni storiografiche sull'argomento.

Contrariamente alle tesi "ufficiali", invero, nessuno dei tre caratteri presentati dal Delogu - volte a botte; aula a due navate; archeggiature - costituisce una dimostrazione univoca di maestranze francesi e di chiese appartenute ai benedettini di San Vittore. È esplicativo il riferimento alle cupole, in Sardegna elemento costruttivo rarissimo, e attribuibile solo a maestranze altomedievali che precedettero le fabbriche vittorine (San Saturno di Cagliari; Sant'Antioco di Sant'Antioco), oltre che - in età moderna - alle fabbriche barocche e neoclassiche. Già nel 1964 uno studioso affermava che "Non ci furono regole fisse per la costruzione delle chiese [...] La chiesa ha di solito pianta rettangolare, vagamente basilicale, ad una, due o tre navate concluse da absidi" (F. Fois 1964, p. 278).

Un'opinione generalmente accettata vuole, in base alle solite conclusioni del Delogu, che il Sant'Antioco, nell'isola omonima, sia stato ricostruito dai vittorini tra il 1089 ed il 1102 (R. Delogu 1953; R. Serra 1989, p. 92). Con i restauri iniziati nel 1966 si poterono demolire gli spessi strati d'intonaco che nascondevano la sovrapposizione delle strutture secentesche a quelle medievali e a quelle bizantine. La messa a nudo del paramento litico ha permesso una rilettura stilistica della chiesa e di ribaltare le tesi "ufficiali": le uniche tracce dell'intervento vittorino si possono riscontrare nella "cripta" del santuario, mentre il nucleo principale - costituito da uno schema a pianta centrale simile al San Saturno di Cagliari ed al San Giovanni di Sinis (Cabras) - si può retrodatare di 5 o 6 secoli (R. Serra 1989, pp. 92-94).

L'uso della volta a botte come sistema di copertura non fu applicato pedissequamente dai vittorini, come, per esempio, nell'eloquente caso della chiesa di Santa Caterina di Semelia (Elmas), in cui "la mancanza di qualunque traccia delle ammorsature degli archi doubleaux ... documenterebbe una copertura lignea fin dall'origine... " (A. Saiu Deidda, 1977, p. 263; P. Leo, 1963, p. 52). Lo stesso Delogu, per il San Pietro dei Pescatori in Cagliari, rilevava che "Se le mensole per l'appoggio di capriate rimaste nei muri lunghi [...] fossero da ritenere coeve all'abside, allora questa chiesa sarebbe l'unica fra le tante costruite dai Vittorini ad avere avuta copertura in legname " (R. Delogu 1953, p. 55).

La copertura a capriate lignee come nel San Pietro di Cagliari non costituisce un'eccezione ma la regola per le chiese dei Vittorini nell'isola, così come si rileva nella maggior parte delle altre strutture religiose superstiti, tutte a navata unica: Santa Maria de Arcu o di Itria, presso Selegas; Santa Maria di Cepola, a Quartu Sant'Elena (I. Farci 1988, p. 40; R. Coroneo 1993, p. 136); San Pietro de Ponte, sempre a Quartu (I. Farci 1988, p. 47; R. Coroneo 1993, p. 135); Sant'Efisio di Quartucciu (R. Coroneo 1993, p. 137); Santa Maria di Palma (A. Saiu Deidda 1977; R. Coroneo 1993, p. 133); S. Nicola di Butule, presso Ozieri (R. Coroneo 1993, p. 137).

Il modello di chiesa binavata - attribuito dagli storici dell'arte sardi solo ed esclusivamente ai monaci marsigliesi - costituì in realtà una rarità nella stessa Francia, e ne costituisce una prova il fatto che i fautori dell'equazione "due navate = Vittorini" non siano mai riusciti a produrre un esempio di chiesa vittorina simile fuori dall'isola. Anzi, tra le chiese provenzali, fa eccezione la cappella di Moissac-Bellevue: in tutta quella vasta regione è una delle poche a due navate, terminante con due absidi di differente grandezza.

Tra le strutture vittorine superstiti in Sardegna, nove conservano la configurazione ad una sola navata con copertura a capriate lignee (San Pietro dei Pescatori; Santa Caterina di Semelia; Santa Maria de Arcu; Santa Maria di Cepola; San Pietro de Ponte; Sant'Efisio di Quartucciu; Santa Maria di Palma; San Nicola di Butule). Sono quattro le chiese a tre navate: oltre alla citata Sant'Antioco, anche il santuario di San Saturno a Cagliari e il Sant'Efisio di Nora, tutte e tre riadoperanti strutture altomedievali con copertura voltata a botte. Invece il San Giorgio a Decimoputzu, pur trinavata, aveva copertura a capriate lignee dall'origine.

Obiezioni possono avanzarsi alla corrente tesi storiografica, secondo la quale vengono solitamente attribuite ai Vittorini anche altre chiese: San Gemiliano a Sestu, San Lorenzo (o Nostra Signora del Buoncammino, a Cagliari), San Saturnino di Ussana, il primo impianto di Santa Maria di Uta, Santa Maria di Sibiola (Serdiana), San Salvatore di Sestu, San Lussorio di Fordongianus. Ma è difficile pensare che nel XII secolo le autorità ecclesiastiche cagliaritane avessero affidato ogni iniziativa costruttiva ai soli Vittorini, con i quali, come si è visto, erano in forte contrasto per la gestione delle vaste proprietà e delle saline.

Anche se con prudenza, si vuole inserire tra le strutture edificate da maestranze francesi "... un gruppo di tre chiese, dalla singolare pianta a due navate che se non può, per via documentaria, essere per intiero compreso in quella che fu la vasta serie dei possessi vittorini, deve, per via stilistica, essere certamente collegato al novero degli edifici costruiti sotto la loro influenza ..." (R. Delogu 1953, p. 58). Tra queste è il San Lorenzo: " ... la chiesa mostra ancora bene, nelle parti originarie, di dipendere da modelli francesi. Sulle due navate, divise da arcate impostate su rozze colonne ..." (R. Delogu 1953, p. 58). La Santa Maria di Sibiola, presso Serdiana, compare per la prima volta nei documenti nel 1341, mentre il centro abitato di Sibiola (si badi bene, non la chiesa) solo nel 1338 risulta tra i beni dei monaci francesi (R. Coroneo 1993, p. 166).

Per quanto riguarda la Santa Maria di Uta, si riteneva che il primo impianto a due navate "... fosse parrocchiale di Uta Sus e ancor prima officiata da monaci, in genere identificati come vittorini. In realtà il titolo di Santa Maria di Uta non è attestato prima del 1363 ..." (R. Coroneo 1993, p. 178), tra le proprietà dell'ordine degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme (L. D'Arienzo 1983). Stessi ragionamenti vengono offerti per il San Lussorio di Fordongianus, ma come fa notare Coroneo "l'ipotesi non trova il conforto dei dati documentari, ne si rintraccia menzione del titolo nei dettagliati inventari vittorini ..." (R. Coroneo 1993, p. 43).

È proprio questo uno dei problemi centrali della ricerca sulle architetture vittorine: è stata creata una teoria storiografica sulla base di edifici erroneamente ascritti ai monaci marsigliesi, scartando all'opposto le giuste considerazioni che si sarebbe potuto formulare considerando le "vere" proprietà dell'ordine benedettino marsigliese.

Si verifica perciò una situazione paradossale: a fronte di una documentazione precisa e dettagliata sulle proprietà appartenenti ai monaci Vittorini, tutte localizzate e identificate, sono state attribuiti agli stessi benedettini francesi ulteriori edifici che in realtà non compaiono mai tra le loro proprietà (San Gemiliano di Sestu, San Lorenzo di Cagliari, San Saturnino di Ussana, il primo impianto di Santa Maria di Uta, San Salvatore di Sestu, San Lussorio di Fordongianus). Gli archivi vittorini assicurano l'esistenza nell'isola di una cinquantina di edifici complessivi nell'arco di due secoli (A. Boscolo 1958): ognuna di queste "vere" fondazioni, come abbiamo già visto, presenta o presentava caratteristiche formali proprie. Vengono perciò a cadere tutti i presunti aspetti comuni di queste architetture.

In sintesi, delle cinquanta chiese vittorine individuate nei documenti, una non è stata localizzata (San Pietro de Ruina) e 30 sono scomparse o ne rimangono pochi resti appena identificabili. Delle rimanenti 19 ancora in piedi, sei sono state completamente ristrutturate e non rimangono parti di età medievale (Santa Lucia a Cagliari; Sant'Amatore di Gesico; Santa Vittoria di Sinnai; Santa Maria di Paradiso, Vallermosa; Santa Maria di Suraghe; Santa Maria Larathon).

Otto sono ad una sola navata, tra l'altro con copertura a capriate già d'impianto (San Pietro dei Pescatori; Santa Caterina di Semelia; Santa Maria de Arcu; Santa Maria di Cepola; San Pietro de Ponte; Sant'Efisio di Quartucciu; Santa Maria di Palmas; San Nicola di Butule). Quattro sono a tre navate (San Giorgio di Decimoputzu; Sant'Efisio di Pula; San Saturno di Cagliari; Sant'Antioco di Sant'Antioco). Infine, tra i dati più interessanti, una sola è a due navate (San Platano, Villaspeciosa). È chiaro insomma che neppure a livello statistico gli edifici dei monaci di San Vittore erano caratterizzati dallo schema binavato e dalla copertura a volta. Anzi è ipotizzabile che essi si servirono spesso di maestranze locali educate ai modi romanici della penisola italiana.

Il romanico francese, come quello catalano, era comunque caratterizzato dall'uso costante delle coperture a volta a botte, rinforzate o meno dai cosidetti "arcs doubleaux" (ossia gli archi trasversali alla navata con funzione di segnare le campate), a differenza delle correnti romaniche italiane, lombarde o toscane, che seguivano la tradizione delle coperture lignee a capriate. Tuttavia, la copertura con volta a botte, a tutto sesto o spezzata, con o senza archi doubleaux, non costituiva patrimonio costruttivo dei soli benedettini di San Vittore, ma di tutti i costruttori della regione: basti pensare ai Cistercensi, ai Templari, e svariati altri ordini d'oltralpe che fecero fortuna in Sardegna.

A questo riguardo bisognerebbe riconsiderare la quasi sconosciuta chiesa di Santa Maria de Silvaru, attualmente allo stato di rudere sulle pendici collinose fra Ossi e Florinas. L'edificio, mononavato con abside a sud-est, aveva volta a botte, di cui restano i primi tre filari di conci lungo il fianco settentrionale. È interessante anche la chiesetta romanica di San Pancrazio di Nursi, presso Sedini, con copertura a volta a botte ogivale, simile a quella della chiesa "cistercense" di San Pietro di Sindia.

Altro edificio degno di menzione è l'inedita Santa Maria de Curos, tra Monteleone Roccadoria e Villanova Monteleone, mononavata, anch'essa caratterizzata da una copertura a volta a botte ogivale (M. Rassu 1999, p. 118). Tutte queste presentano somiglianze con la cappella del Krak des Chevaliers in Siria, costruita da maestranze normanne nella seconda metà del XII secolo (G. Curzi 1994, p. 566). In Terra Santa le chiese dei crociati nei villaggi minori erano a navata unica, di due o più campate, coperte indifferentemente a botte o a crociera e concluse da un'abside semicircolare (G. Curzi 1994, p. 559).

Larga applicazione in area franco-iberica ebbero anche gli archi "formerets" e le crociere a copertura delle navatelle, in particolare nelle strutture del tipo della "chiesa di pellegrinaggio", elaborato fra il 1030 e il 1096 (M. Durliat 1985, pp. 155-164), e di cui in Sardegna uno dei primi esempi fu dato proprio dal priorato di San Saturno di Cagliari.

La tipica chiesa romanica in Francia nel XII secolo, e in particolare della Provenza, era un edificio rettangolare ad aula mononavata, lunga da 15 a 20 metri, e larga da 5 a 7 metri, con muri spessi e di fattura accurata, affiancati da piatti contrafforti; l'abside semicircolare era sormontata da una calotta sferica. La navata era coperta da una volta a botte con archi trasversali che determinavano le campate della navata, in genere tre. Perciò, come abbiamo visto, fa eccezione tra le chiese provenzali, la cappella di Moissac-Bellevue, binavata, appartenuta all'Ordine cavalleresco dei Templari.

Tra i benedettini presenti in Sardegna, scarsa attenzione è stata dedicata ai monaci Lerinensi, che ebbero proprietà nell'area di Samassi e Serramanna (R. Coroneo 1993, p. 238). Il monastero di Lerins – in origine dipendenza dell'abbazia di Cluny - nel 1336 fu assoggettato a San Vittore di Marsiglia (G. Moroni Romano 1846, pp. 108-109): i beni sardi passarono probabilmente al priorato di San Saturno di Cagliari. Solo tale evento spiegherebbe il motivo per cui, nell'inventario redatto dal suo priore nell'anno 1338 compaiono anche le chiese di San Michele di Pau Suso (Vallermosa), Santa Vittoria di Sebollo (Serramanna) e Santa Maria di Turri (Sisini?), mai citate prima. A Samassi una campana e un sigillo in bronzo recavano entrambi l'immagine di Sant'Onorato, fondatore del monastero di Lerins, e l'iscrizione "Sigillum Abbatiae Sancti Honorati Insule Lerinensis" (F. Cherchi Paba 1963, pp. 49-50; R. Coroneo 1993, p. 238).

Per quanto riguarda la diffusione della tipologia di pianta a due navate in Sardegna, si hanno pochi esempi: alcuni come edifici inizialmente ad unica navata, poi raddoppiata, ed altri da classificare in strutture d'impianto, di cui si deve piuttosto parlare di " ... locale tradizione di chiese binavate della prima metà del XII secolo" (R. Coroneo, 1993, p. 247). Tale costante dovrebbe risalire all'epoca altomedioevale, come si delinea da recenti studi. Risulta diffuso in tutta l'area dell'impero bizantino di Giustiniano: Grecia (Eleuthères), Turchia (Sykeon, Sebaste, Arnitha), Siria, Libano, Israele, Giordania, Egitto (Abou Mina, Kellia), Libia (Sabratha), Tunisia, Serbia, Croazia, Italia centro-settentrionale (Albenga, Torino, Vercelli, Como, Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Verona, Trento, Feltre, Grado, Aquileia, Trieste), Francia (N. Duval-J. P. Caillet 1996 a, pp. 25, 30, 34).

Tra l'altro - nonostante la vasta area di diffusione - non si conoscono le reali motivazioni della sua funzione (N. Duval-J. P. Caillet 1996 b, pp. 225-234), che secondo alcuni poteva essere legata ad esigenze di culto, come si testimonia, per esempio, nelle isole Cicladi in cui tali edifici ospitavano in un'aula l'altare di rito romano-cattolico e nell'altra l'altare greco-ortodosso (P. Piga-Serra 1980, pp. 354-355).

In base a questa tesi, si può ipotizzare che per gli edifici sardi di questa tipologia - Santa Maria di Sibiola, San Platano a Villaspeciosa, San Gemiliano a Sestu, San Lorenzo a Cagliari, San Saturnino di Ussana, il primo impianto di Santa Maria di Uta - il prototipo fu costituito, probabilmente, dal San Giorgio di Ulassai, databile all'età altomedievale, situato tra Perdasdefogu e Quirra (G. Cavallo 1987).

Lo stesso modello fu ripreso in alcuni edifici religiosi del XIII secolo, binavato ma con copertura già in origine a capriate lignee: San Michele di Siddi (R. Coroneo 1993, p. 246), San Pietro di Villamar (R. Coroneo 1993, p. 242) e San Narciso di Furtei (R. Coroneo 1993, p. 238). In particolare, alcune chiese della Dalmazia - a Stari Grad, a Zenica-Biliuisce, a Nin (P. Chevalier 1996, p. 157) - sono paragonabili, in pianta, alla sarda Santa Maria di Sibiola.

Nel caso della Santa Maria di Uta è proprio la sovrapposizione di una chiesa romanica a tre navate su una precedente struttura binavata a far retrodatare quest'ultima ad un periodo notevolmente lontano rispetto alla fabbrica romanica, periodo sostanzialmente identificabile con l'età altomedievale.

Altre, invece, erano inizialmente ad aula unica e in un secondo tempo ampliate con l'aggiunta di un'altra navata: San Giovanni Battista di Barumini, Sant'Elia di Montesanto (Siligo), Santo Stefano di Monteleone Roccadoria, tutte appartenute ad ordini monastici.

La chiesa a due navate fu anche un modello assai singolare nell'architettura domenicana (A. Cadei 1983, p. 24), e, in quella francescana del XIV secolo (Y. Carbonell-Lamotte 1968, pp. 165-184). Un caso interessante in Sardegna è il citato San Giovanni Battista di Barumini, riconsacrato nel 1316 dal vescovo di Usellus, il domenicano Roberto Drago.

Alcune chiese vittorine (San Pietro de Ponte; Sant'Efisio di Quartucciu; San Nicola di Butule; San Pietro dei Pescatori) risultano completamente rifatte nella seconda metà del XIII secolo secondo alcune modalità che si ritrovano nel secondo impianto della Santa Maria di Bonarcado (1242-1268) e nell'ampliamento del San Pantaleo di Dolianova (1261-89). Da queste derivano, per le decorazioni, molte altre chiese sarde costruite o restaurate nella seconda metà del XIII secolo. Oltre alle quattro citate: San Pietro di Villamar, il San Gemiliano di Sestu, San Michele di Siddi, San Pietro di Villa San Pietro, Santa Barbara di Capoterra, Santa Maria d'Itria di Maracalagonis, Santa Lucia di Monastir, Sant'Agata di Quartu, San Lussorio di Fordongianus, Santa Maria di Betlem (Sassari), San Donato, Santa Barbara di Li Punti. Caratteristiche peculiari di questi edifici religiosi sono la navata dalle dimensioni allungate (il rapporto tra lunghezza e larghezza è maggiore di due), la copertura presumibilmente lignea anche in origine, l'abside dalla volta quasi piatta e non segnata all'imposta del semicatino.

Massimo Rassu

L'autore di questo articolo.
L'ingegner Massimo Rassu
svolge la libera professione
nel campo dell'architettura e dell'urbanistica.
Ha pubblicato diversi saggi di storia
e di storia dell'architettura della Sardegna.
e-mail: maxrax@tiscali.it

DOCUMENTI.
La mappa delle chiese vittorine
in Sardegna.

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Cagliari, San Pietro dei pescatori: particolare della facciata.
(foto M. Rassu, 1996)

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Villaspeciosa, San Platano: particolare della facciata.
(foto M. Rassu, 1993)

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Sam Giovanni Suergiu, la chiesa di Santa Maria di Palmas .
(foto M. Rassu, 1992)

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Villaspeciosa, San Platano.
(foto M. Rassu, 1993)

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Cagliari, san Pietro dei pescatori: la chiesa sullo sfondo di un antico dipinto.
(foto M. Rassu, 1996)

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Selegas, Santa Maria Itria o de Arcu: controfacciata.
(foto M. Rassu, 2000)

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