PER "SA DIE 'E SA SARDIGNA"

PROVE DI "PULIZIA ETNICA" IN SARDEGNA

 

La festa de "Sa Die 'e sa Sardigna" deve farci ricordare i secoli di angherie subiti dal Popolo Sardo.

Pochi conoscono le grandi atrocità compiute dai "cristianissimi" re aragonesi nei primi novant'anni della loro dominazione nell'isola. Stragi, massacri di popolazioni inermi, deportazioni di massa, espulsione di migliaia di abitanti dalle città poi ripopolate con genti fedeli, stupri; sembrerebbe che si stia parlando della recente guerra in Bosnia, o della Seconda Guerra Mondiale. Invece, la "pulizia etnica" ante litteram ebbe i suoi fasti anche in Sardegna.

Gli aragonesi adottarono subito questi metodi, all'indomani della seconda vittoria sui Pisani (1326) che furono costretti dal primo all'ultimo a lasciare le loro abitazioni dentro l'attuale rione Castello di Cagliari, case immediatamente assegnate a tutti gli iberici che avevano partecipato all'impresa. Successivamente, per garantirsi dei cittadini fedeli alla causa, i re d'Aragona espulsero dei loro abitanti le città di Sassari (1328) e Alghero (1354), che furono popolate da emigrati catalani, fatti venire appositamente dalla Spagna. Ancor oggi, a distanza di sei secoli, ad Alghero esiste una minoranza che conserva la lingua catalana. Nel 1333 tutti gli abitanti, una ventina di famiglie, dello scomparso villaggio di Aryagono, in Gallura, furono massacrati, perchè si erano opposti al feudatario. In un acume di cinismo, i documenti riportano la notizia non per questioni di pietà nei riguardi delle vittime, ma per la perdita economica che ne derivava per l'Erario Regio la scomparsa di tanti contribuenti. Vent'anni dopo, nel 1353, scoppiata la guerra contro l'Arborea, si assistette ad una serie di spedizioni punitive nei riguardi degli abitati, come Capoterra (CA) e Orosei (NU) che erano amministrati dalla famiglia giudicale di Mariano IV. Nell'estate dello stesso anno, un manipolo di mercenari aragonesi provenienti da Sassari, attaccava e dava alle fiamme la piccola borgata di Rebeccu, attuale frazione di Bonorva (SS); anche qui la popolazione fu completamente sterminata: bambini, donne, vecchi furono passati a fil di spada. Ai cadaveri delle donne gravide furono cavati i feti dalle viscere.

Uno dei più grandi massacri di Sardi fu perpetrato dai vincitori della battaglia di Sanluri (30 giugno 1409). In quel giorno l'esercito catalano, forte di 3000 cavalieri e 8000 fanti armati di tutto punto, al comando del re di Sicilia, Martino il Giovane, figlio del re d'Aragona Martino il Vecchio, batteva le truppe arborensi, che venivano schiacciate. La tragedia aveva luogo nella collina ancora oggi conosciuta come Su Bruncu 'e sa Batalla: nella mischia furibonda, i sardi ebbero la peggio, lasciando sul campo, nel luogo detto S'occidroxiu, il macello, alcune migliaia di morti e di feriti. Chi non riuscì a fuggire verso Nord, si rinchiuse nel borgo fortificato di Sanluri. Gli armati catalani che non avevano inseguito i fuggitivi assediarono il borgo: la cittadina fu saccheggiata e uccisi tutti gli abitanti non abili al lavoro, vecchi e fanciulli, mentre gli altri, circa 4000 furono fatti schiavi, e costretti a subire umiliazioni e violenze. Tra le vittime del vergognoso mercato ci furono molte giovani donne e bambine, considerate dei veri e propri bottini di guerra. I documenti ricordano pure i nomi di alcune di loro: Maria di 18 anni, Benedetta di 22, Elena di 8, Anna di 50. I prigionieri furono portati a Cagliari, e molti fatti proseguire per la Sicilia e la Spagna. Giunto a Cagliari, il re Martino contrasse una relazione amorosa con una ragazza fatta prigioniera a Sanluri, ma moriva poco dopo di malaria, contratta probabilmente proprio durante la breve campagna militare. Intorno alla figura dell'ignota prigioniera sellorese, da semplice pettegolezzo, si sviluppò allora la leggenda della "Bella di Sanluri", fantasia interpretata in chiave resistenziale dagli storiografi romantici del XIX secolo.

 

MASSIMO RASSU